LA STORIA, I RACCONTI, PAULARO E CIRO DI GLERIA
È arrivata la pioggia e il brutto tempo. Lungi da me narrare le vicissitudini delle attuali giornate primaverili e del loro delicato clima invernale! Quello che voglio raccontare è come la neve ha benevolmente incipriato i profili delle montagne trattenendoci tutti a casa. Benevolmente perché nelle giornate di bel tempo, il centro dei paesi di montagna al mattino pullula di gente che al pomeriggio affolla come api gli orti e i campi, mentre l’inverno e il freddo riportano la vita in casa e, quest’anno, lo fa anche la primavera.
Con gli anni, ormai ben nove, mi sono abituata a questi ritmi che riportano pace interiore mentre si guarda il mondo dalla finestra. Anche il dolce riposo è apprezzabile.
A dire la verità, aspettavo da tempo un’occasione per rintanarmi in casa ad un orario adatto per dedicare alcune ora alla lettura dei racconti di Ciro Di Gleria che l’autore mi aveva personalmente donato. Ho considerato questo fatto un grande onore e, a lettura ultimata, un grandissimo privilegio. Non che fosse la prima volta che mi cimentavo nelle sue storie, ma, vuoi la circostanza particolare sicuramente favorevole, vuoi la mia maggior conoscenza della storia locale sviluppata da costanti incontri, che oserei definire privilegiati, con “testimoni” del posto, la sua narrativa aveva assunto ai miei occhi un sapore particolare.
Il primo racconto, intitolato Il meracul dal 1973, ricorda le portatrici attraverso la storia della nonna materna di Ciro, Giacomina Linussio detta Pupone. Da subito non è sembrato mero racconto storico, nemmeno la raccolta di una testimonianza, ma piuttosto una riflessione, lucida e obiettiva su come la storia viene deformata a piacimento negli anni rendendo le persone di riguardo meritevoli solo dopo la morte. Facile a quel punto parlar bene di un “sopravvissuto”, sopravvissuto non alle malefatte della guerra perché, come ci ricorda Ciro, la vuere a copave cul moschet e la pâs a copave cu la lenghe, ma alla vita resa difficile dagli implacabili giudizi che troppo facilmente ignorano le nostre opere ‘di bene’. Ma si sa, “parla male degli altri soprattutto chi si rende conto di non poter parlare bene di sé” e questa insoddisfazione interiore è purtroppo troppo spesso il filo conduttore del pensiero umano, reso ancora più implacabile dalla fatica e dalle avversità. Il sassolino nella scarpa Ciro ha tentato invano di toglierselo, ricordando il vero valore di queste donne rimaste all’ombra di chi ha invece voluto salire “sul palco”. Una riflessione, dicevo, che assume un valore universale partendo da un fatto storico di glorie passate e che ci fa ricordare come il tempo porti sempre la verità… peccato che non la porti in tempo!
I racconti di Ciro sono incorniciati nella vita socio-economica della montagna di un tempo, ancora abbastanza attuale, vita scandita dalla natura e dalle attività connesse. Così I çocs di Bepo, racconto in cui il “dispetto” dà un po’ di leggerezza al faticoso lavoro di preparazione delle legna per l’inverno; così Mine e Nel, narrazione in cui l’attività protagonista è il taglio del fieno e l’avversità del tempo che non da tregua ai protagonisti privi di pensiero per il passandoman, ma concentrati su chel grîs parsore i pez ch’a si sfantave tal scûr dal bosc. In questo contesto, non poteva mancare un racconto dedicato al clero, figura portante nei paesi di montagna, e rappresentato in ll plevan e il vueli sant… La scuola e i fanciulli sono i protagonisti di Lu dispièt mai perdonâ.
Si tratta di “storie nella storia” dove si svolgono eventi che ripercorrono uno scorcio del tempo che fu e dove emerge una morale e moralità primordiale troppo spesso scontata.
Ho concluso la mia giornata con Zef sorgjâl, un racconto che a caso chiude anche un’epopea, la storia di un periodo storico visitata nei suoi vari aspetti, l’ultimo in successione ma certamente non ultimo per importanza; quel lato rigido dell’uomo di montagna generalmente confuso con insensibilità, uomo che però lascia trasparire i suoi sentimenti quando confessa che tal not in tal forest ai vignive di petâ berlis e rimarca la presenza di un destino avverso, quasi ineluttabile, e cieco.
Una natura ostile in cui si muovono personaggi portatori di storie vere che lasciano in bocca quel che di amaro nei confronti dell’ingiustizia, del pregiudizio e della malvagità di cui il genere umano è capace.
Ciro Di Gleria racconta tutto questo, in una lingua usata nella sua più arcaica forma dialettale, quella di Paularo, dando così alle parole un valore ancestrale e atavico.
Commenti
Posta un commento