ETIOPIA: FINE DELLA CRISI POLITICA ANCORA LONTANA?
DOPO LE DIMISSIONI DI HAILEMARIAM DESALEGN, ABIY AHMED
ALI È DIVENTATO PRIMO MINISTRO. RIUSCIRÀ A RISOLVERE I PROBLEMI DEL PAESE, COME
QUELLO DEI PROFUGHI?
È stata l’azione militare del 10 marzo a portare più
di 10.000 persone della città di Moyale, situata nella regione Oromia, nel centro-sud dell’Etiopia, a passare il confine cercando
rifugio in Kenya. I civili
erano stati colpiti «per errore», secondo quanto dichiarato dalle forze
di sicurezza etiopi, che erano state informate della presenza nella città di
combattenti del Fronte di
liberazione Oromo (OLF),
gruppo considerato terroristico dal governo.
Non è tuttavia l’unico episodio di violenza contro la
popolazione Oromo, gruppo etnico che costituisce, assieme agli Amhara, il 60 per cento della
popolazione del Paese.
Le regioni di Amhara e Oromo sono
state, a partire da
novembre 2015, teatro di
numerose proteste contro il governo guidato dalla minoranza Tigrai che tiene le
altre principali etnie politicamente ed economicamente marginalizzate.
Un disagio fortemente accentuato dalla situazione del Paese dove il 30% della
popolazione vive in condizioni di estrema povertà.
Secondo quanto riferito da Amnesty International, le forze di
sicurezza avrebbero fatto ricorso in più occasioni a un eccessivo uso della
forza per reprimere le proteste, uccidendo, entro la fine del 2016, almeno 800
persone.
L’instabilità politica ha portato il primo
ministro Hailemariam Desalegn a
presentare, o ad accettare di
presentare, le proprie
dimissioni considerate necessarie per «aprire la strada a nuove
riforme». Per evitare ulteriori disordini, è stato imposto il 16 febbraio,
per la seconda volta, lo stato di emergenza della durata di sei mesi – era
stato dichiarato una prima volta il 10 ottobre 2016 ed era durato ben 10 mesi.
La situazione del Paese sembrerebbe essersi
stabilizzata dopo l’elezione del nuovo primo ministro, l’oromo Abiy Ahmed Ali, elezione accolta
positivamente da più parti.
Un segnale di apertura è stato anzitutto il ripristino
dell’accesso a internet, ristretto per tre mesi nelle regioni al di fuori della
capitale.
Il neoeletto ha poi effettuato un rimpasto di governo «per rispondere alle richieste
del popolo», come lui stesso ha dichiarato. Sono stati quindi nominati dieci nuovi
ministri, mentre il
ministro delle finanze e degli esteri sono tuttora quelli designati in
precedenza e altri sei hanno semplicemente cambiato incarico. Un’abile
scelta, utile a non destabilizzare il governo con ulteriori tensioni etniche.
Ci vuole tuttavia di più per
arrivare ad una vera svolta in uno Stato in cui chi è iscritto al partito al
governo,
il Fronte rivoluzionario
democratico dei popoli etiopi (Eprdf), può usufruire,
secondo quanto riferito da un’indagine condotta da Human Rights Watch nel 2010, di
determinati servizi mentre viene tolta ai dissidenti anche la possibilità di
trovare lavoro. Così tra il 2005 e il 2008, gli iscritti all’Eprdf sono
più che quadruplicati.
È tuttavia ancora in atto lo stato di emergenza, come
rimane ancora problematica l’emergenza rifugiati etiopi in Kenya. Già il
21 marzo scorso, il posto di comando creato per monitorare lo stato di
emergenza aveva dichiarato che molti rifugiati stavano rientrando in Etiopia,
fatti tuttavia smentiti dai media e dalle organizzazioni internazionali
presenti sul posto.
Ora, il
rientro dei profughi, dopo il positivo accoglimento del nuovo primo
ministro, sembrerebbe confermato.
I campi della contea di Marsabit sono
stati ufficialmente chiusi dopo che i rifugiati hanno accettato, secondo quando
affermato dal governatore della contea Mohamud Ali, «di tornare nelle
loro case dal momento che è stato eletto un nuovo primo ministro». I
richiedenti asilo verranno invece registrati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e spostati nel campo di Kakuma, nella contea nordovest
di Turkana, che ospita
oltre 185.000 persone provenienti da venti paesi in guerra o in conflitti
permanenti.
Fonti presenti sul territorio affermano tuttavia che
altri richiedenti asilo stanno ancora arrivando ogni giorno nella parte keniota
della città di Moyale. Circa 800 persone, il 15% circa dei rifugiati, sono
rimaste nel campo principale di Somare,
mentre altre 4000 sono stanziate in altri due campi vicino al confine.
Quelli che rimangono sono soprattutto donne e bambini
scappati con animali al seguito e quindi con pochissima intenzione di rientrare
in un paese dove comunque vivono da nomadi. Tutto questo grava pesantemente
sulla città di Moyale che non ha tutte le risorse necessarie per gestire la
situazione.
Il campo di Sololo, che attualmente garantisce la
sussistenza a circa un migliaio di persone, cerca di intervenire e aiuti
arrivano anche a livello di solidarietà tribale perché gli Oromo sono dello
stesso ceppo dei Borana kenioti. Rimane
tuttavia difficile fare fronte a questa nuova emergenza creatasi dopo il
rientro in Etiopia di molti rifugiati e quindi la conseguente chiusura dei
campi e partenza delle Ong presenti sul territorio.
Anche se l’elezione di Abiy ha portato un’ondata di
ottimismo nel paese, ci vuole molto di più per stabilizzare il Paese che
necessita di riforme del sistema politico, economico ma anche dell’esercito. In
questa difficile situazione, non ultimo il problema profughi
indissolubilmente legato, più che alla questione marginalizzazione dei gruppi
etnici Oromo e Amhara, alla politicizzazione del sistema burocratico e alla
criminalizzazione dei dissidenti.
Commenti
Posta un commento