ELEZIONI AFRICANE, FUMO NEGLI OCCHI PER CHI È GIÀ AL POTERE

ELEZIONI AFRICANE, FUMO NEGLI OCCHI PER CHI È GIÀ AL POTERE


Sembrano essere le elezioni il vero problema dell’Africa che ha visto andare alle urne 13 paesi nel 2015; una ventina dovrà farlo nel 2016. Ad ogni appuntamento elettorale, si assiste a scontri pesanti e molte ombre vengono gettate sulla regolarità delle stesse. L’attaccamento al potere è forte, soprattutto in paesi martoriati da povertà e disuguaglianza, dove il raggiungimento di una posizione politica di rilievo è tutt’altro che irrilevante. Persino Paul Kagame, presidente del Ruanda, ben voluto dal suo popolo e guardato con occhi favorevoli dai paesi limitrofi, non ha esitato a modificare la costituzione del suo paese per rendere possibile un suo terzo mandato. È quindi seguita la sua nuova candidatura per le elezioni del 2017, candidatura che, per fortuna, non ha creato grandi disordini visto il generale consenso di cui gode.
Un passaggio di potere che potremmo definire democratico si è avuto nel 2015 in Nigeria, Tanzania, Zambia e, dopo il tentato golpe di settembre, anche in Burkina Faso. Purtroppo, non è stato sempre così e in Burundi, la dichiarazione di Pierre Nkurunziza, ad aprile 2015, di candidarsi per un terzo mandato, in aperta violazione della costituzione burundese, ha fatto sprofondare il paese in una generale instabilità, con forti tensioni che hanno dato il via a rappresaglia da parte del governo, reo di uccisioni di massa.
La comunità internazionale rimane sempre molto, forse troppo, cauta nell’intervenire in alcuni paesi, tenendo invece d’occhio il passaggio di potere in alcuni altri stati.
Questo vale sicuramente per la Repubblica del Congo dove Joseph Kabila, in carica dal 2001, sta cercando di ottenere un terzo mandato, causando numerose proteste in un paese che sta già subendo una ventennale crisi umanitaria soprattutto nelle regioni minerarie del Nord e Sud Kiwu. Le sue precedenti elezioni, dubbie al limite dello scandalo (fu eletto solo tenendo conto dei risultati parziali; quelli definitivi non sono mai pervenuti), sono state tollerate dalle potenze occidentali forse perché il Congo è uno dei più ricchi paesi al mondo per quanto riguarda le risorse naturali, ed è chiaro che le potenze internazionali vogliono togliere qualsiasi ostacolo ai loro facili guadagni.
Le elezioni in Zambia, il secondo produttore africano di rame che viene estratto dai gigante del settore, si terranno a settembre e l’esito è sicuramente di grande interesse visto che il precedente presidente Michael Sata aveva avviato una riforma fiscale che triplicava il prelievo dello Stato sui profitti delle aziende destinatarie di concessioni per lo sfruttamento delle miniere. Doveva entrare in vigore a gennaio ma il suo successore Edgar Lungu, eletto dopo la sua morte, l’ha accantonata cedendo alle richieste delle compagnie minerarie. Se da un lato gli investimenti portano ricchezza e contribuiscono a mantenere un certo livello di pace sociale, dall’altro implicano una condizione di dipendenza dello Stato nei confronti degli interessi delle multinazionali.
A fine febbraio è toccato a Yoweri Musseveni, riconfermato presidente dell’Uganda dopo 29 anni di governo. Dal giorno delle elezioni, la polizia e militari sono intervenuti nelle strade per calmare le proteste e il principale oppositore Kizza Besigye è agli arresti domiciliari. Durante i suoi anni di governo, Musseveni ha abilmente ottenuto un importante riconoscimento all’estero inviando soldati in varie missioni di pace delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana per combattere il terrorismo. Lo scorso ottobre, è stato persino nominato dalla Unione Africana e dalla Comunità Africana mediatore per la risoluzione della crisi in Burundi, accrescendo così la sua credibilità.
L’attenzione rivolta agli stati africani dipende in gran parte da strategie politiche ed interessi economici piuttosto che dalla volontà di sostenere un passaggio di potere all’insegna della democrazia. Le situazioni allarmanti come quelle del Sud Sudan, considerata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati “una delle più terribili emergenze umanitarie del mondo”, con 2,3 milioni di sfollati, 650mila profughi, 1,65 milioni profughi interni, quotidiani scontri a fuoco e furti, saccheggi di abitazioni civili e aggressioni sessuali di giovani armati, situazioni che vengono dimenticate forse perché il governo dell’uno o dell’altro non assicura alcun guadagno a nessuna potenza occidentale.

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