LA VITA NEL BURUNDI DI PIERRE NKURUNZIZA
VOCI DA UNA GUERRA CIVILE IGNORATA
Le
storie di guerra sono spesso raccontate con grande difficoltà e non senza paura
da chi dalla guerra è riuscito a fuggire. Molti potrebbero parlare della
situazione del Burundi,
stando ai dati forniti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati, secondo i quali sarebbero ben 420.000 i rifugiati e richiedenti
asilo provenienti da questo piccolo stato africano.
I burundesi fuggiti
dal loro Paese hanno trovato rifugio in Ruanda, Tanzania, Uganda e persino
nella vicina Repubblica Democratica del Congo che sicuramente non brilla per
sicurezza e tranquillità. Almeno 36 rifugiati del Burundi in
Congo sono morti e oltre 100 sono rimasti feriti nella provincia del Sud Kivu,
quando la polizia congolese ha sparato su di loro durante una protesta, secondo
quanto dichiarato dall’inviato delle Nazioni Unite in Congo, Maman Sidikou. Pare che alcuni
profughi si siano ribellati alle autorità congolesi che volevano riportarli nel
loro Paese. Alcuni testimoni parlano addirittura di connivenza tra le
milizie imbonerakure, lega giovanile del
partito al potere inviati dal governo burundese, e i vertici congolesi.
Quello che si sta
consumando in Burundi è una vera e propria guerra civile. La situazione
drammatica che il Paese sta vivendo dal 2015 è stata innescata dalla decisione
del Presidente Pierre Nkurunziza, un pastore protestante di etnia hutu, di
ricandidarsi per un terzo mandato. Da quel momento sono scoppiate numerose
proteste da parte dell’opposizione politica ma anche della società civile.
Molto dura è la repressione operata dalla polizia e dalle forze militari: sono
ormai accertati gravi casi di violazioni dei diritti umani, uccisioni illegali,
sparizioni forzate, torture e altri maltrattamenti, e arresti arbitrari. La
violenza contro donne è quotidiana e i diritti alla libertà d’espressione e
d’associazione sono completamente soffocati.
Attacchi attribuiti a
gruppi di ribelli vanno spesso a giustificare arresti di massa. Ricordiamo le
uccisioni extragiudiziali avvenute dopo l’assalto a tre campi militari della
capitale Bujumbura, nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 2015.
Con il sistema ‘porta
a porta’, la polizia e i militari hanno prelevato e poi ucciso giovani dei
quartieri di Musaga, Mutakura, Nyakabiga, Ngagara, Cibitoke e Jabe, dove vi è
una forte presenza della minoranza Tutsi. Si tratta del
peggiore massacro di civile perpetrato dal governo di Nkurunziza. Quel giorno
viene ricordato con l’hastag #1212massacre in ricordo del numero delle vittime.
I controlli e le perquisizioni sono all’ordine del giorno in questi quartieri, e ci si chiede cosa
può significare vivere alla periferia di Bujumbura, bersagliati dalle
rappresaglie della polizia e dalle forze militari.
Gli abitanti hanno
ovviamente paura. Una giovane ragazza della periferia della capitale
– che per motivi di sicurezza ha chiesto di rimanere in anonimato – dichiara
che “pur non sentendo spesso attacchi con armi da fuoco, i sequestri di persone
da parte delle milizie imbonerakure e delle forze dell’ordine continuano. Tutto
questo provoca un senso di paura costante”.
La situazione viene definita molto critica e
le ragazze non escono mai sole, sono sempre accompagnate da un parente maschio
per non rischiare violenze sessuali. Sono invece i giovani, accusati di avere
partecipato a manifestazioni contro il terzo mandato di Nkurunziza, ad essere
arrestati. “’Mio cugino è stato uno di quelli’, racconta la ragazza, ‘e prima
di essere portato in prigione, è stato torturato. Per fortuna, lo hanno rilasciato’.
Non manca mai di rimarcare che l’etnia tutsi è presa molto di mira e quindi i
loro quartieri sono sempre perlustrati soprattutto di notte.
Riguardo all’arresto, nel luglio scorso, di
una donna di ritorno dal Ruanda, la ragazza parla di accuse che riguardano la
sua possibile adesione a movimenti antigovernativi che si starebbero
organizzando nello stato ruandese.
Il Burundi, oltre ad essere il Paese più
povero dell’Africa, è devastato da una guerra civile che si è ormai
etnicizzata, ma può anche contare sulla grande forza di contestazione che
aleggia tra i giovani, sì arrestati, ma sempre pronti a lottare contro il
governo di Nkurunziza.
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